IL CERVELLO MANDA IL COMANDO MA LA MANO NON RISPONDE

"IO IL COMANDO LO DO GIUSTO MA È LA MANO CHE NON RISPONDE!"
Probabilmente si tratta della frase più ascoltata da tutti i professionisti che si occupano di riabilitazione post ictus. Spesso accompagnata da una espressione del paziente incredula e sorpresa di come un pezzo del suo corpo non obbedisca a comandi così chiari di movimento impartiti dal proprio cervello. Questa insubordinazione viene vissuta dal paziente come un vero e proprio ammutinamento del proprio corpo che non vuole piegarsi alla volontà superiore del proprio cervello. 
A volte questa rottura con il proprio corpo viene vissuta in modo conflittuale apostrofando la mano con termini coloriti come “questa scema non ne vuole sapere” “ questa str…za non si muove”. 

Lo stesso avviene interpretando le espressione dei pazienti afasici che avviliti dal limite linguistico in modo ancora più concitato è come se volessero dirti, “ io le parole ce le ho proprio qui sulla punta della lingua, ma non escono fuori” 
Sono sicuro che il paziente che legge questo primo paragrafo si sente in pieno accordo e voglio cominciare fin da subito ad analizzare insieme a voi gli aspetti di questo panorama che non può portare a nulla di buono ai fini del recupero, per poi proporre nel corso dell’articolo delle chiavi interpretative più favorevoli al recupero. 

Limiti dell'interpretazione della mente che comanda e del corpo che ubbidisce
Per comprendere a pieno il contenuto di questo articolo dovremmo abbracciare alcune premesse nei confronti dei meccanismi attraverso i quali l’essere umano comprende i fenomeni legati al proprio corpo, il movimento e la propria coscienza. Abbiamo più volte in questo sito fato riferimento al concetto di metafora, non tanto come abbellimento retorico per il nostro linguaggio, ma come vero e proprio strumento attraverso il quale impariamo e comprendiamo i fenomeni del mondo che ci circonda e del nostro mondo interno. 
Lo studioso più autorevole che si occupa di Metafora è George Lakoff professore di scienze cognitive dell’università di Berkeley in California, che introduce il tema nel suo testo metafora e vita quotidiana che invito i lettori più attenti ad approfondire. 
La metafora concettuale è proprio quella che ci consente di comprendere un fenomeno che non conosciamo attraverso il funzionamento di un fenomeno che invece conosciamo. Questo continuo attingere alle nostre conoscenze per comprendere cose nuove avviene ogni giorno ed in ogni campo. 
Proviamo a fare qualche esempio pratico; in molti avrete sentito parlare di servizi “cloud”; il termine stesso che significa nuvola, ci offre già nel suo termine una metafora per farci comprendere il funzionamento di questi servizi. Mettere i dati sulla “nuvola”, su un qualcosa che non è fisicamente nel tuo computer ma che è al di sopra e quindi accessibile anche da altri dispositivi. 
L’idea di nuvola che tutti noi conosciamo ci aiuta a comprendere questa tecnologia in modo più efficace offrendoci un appiglio mentale su cui costruire il nuovo e difficile concetto. 
Se dobbiamo spiegare a un bambino cosa è un pipistrello, qualcuno potrebbe essere portato a dire che è un “topolino con le ali” Quando vediamo un bel mare calmo possiamo dire che è una tavola. Queste sono metafore esplicite e facilmente intercettabili nel parlato comune. 

Ancora più facile trovarsi di fronte ad una metafora quando parliamo con un paziente che ha subito un ictus ed ha visto cambiare le regole del proprio corpo e del movimento. 
Prova nuove sensazioni e l’unico modo per farle comprendere ad un interlocutore che non ha mai provato nulla di simile nella sua esperienza è proprio attraverso una metafora ovvero un campo comune per aiutarlo a comprendere cosa prova intimamente. Ad esempio quando ci parla della sua gamba e ci dice che è “come un tronco” vuole far avvicinare immediatamente l’interlocutore a quello che prova internamente, infatti quando ascoltiamo la parola tronco la nostra mente associa subito gli elementi che possono essere in comune con la gamba del paziente, come la pesantezza, il fatto che non abbia snodi e che sia un pezzo unico. 
Anche quando sento la frase “ è come un elastico che tira” riferendosi al braccio avviene lo stesso processo, proprio di questa ultima metafora ne parlo in questo articolo
Ma ci sono delle metafore che sono molto meno visibili e che ormai sono entrate nella nostra coscienza, le utilizziamo senza nemmeno accorgercene. Sono metafore concettuali annidate ad un livello più profondo della coscienza che determinano il nostro comportamento, ad esempio conosciamo tutti il detto : “tempo è denaro”, ma quello che non è sotto gli occhi di tutti è che non si tratta solo di modi di dire, bensì una cornice entro la quale organizziamo il nostro comportamento nei confronti del tempo e del denaro infatti veniamo pagati a ore, stipuliamo contratti annuali, il tempo lo sprechiamo, lo spendiamo e lo investiamo proprio come facciamo con il denaro. 
Tutto il nostro conoscere è regolato da cornici concettuali come queste ed anche la consapevolezza ed il comportamento che abbiamo nei confronti del nostro corpo-mente e movimento riflette il modo in cui abbiamo incorpato tali metafore. 
Quando ad esempio diciamo una frase apparentemente innocente come questa : 
Io il comando lo do giusto ma è lei che non risponde” 
riferendoci alla mano non stiamo facendo altro che utilizzare per il movimento del nostro corpo una cornice di comportamento che richiama una gerarchia militare, come se il cervello fosse una entità separata e superiore dal resto del corpo che invece rappresenta la parte esecutrice inferiore di rango. 
In questa cornice la mano è una sottoposta del suo superiore comandante il "signor" cervello. Purtroppo una cornice di questo tipo (cervello-comandante; corpo-sottoposto) potrebbe non essere favorevole al recupero del movimento in seguito ad una lesione cerebrale a causa di diverse insidie che celano al suo interno. 


  1. Il comando è possibile che non sia poi così tanto“giusto” come si può pensare 
  2. Il cervello e la mano non sono due enti separati che rispettivamente impartisce e obbedisce agli ordini, ma parti di una stessa ed indivisibile unità integrata 

Il comando che diamo è veramente “Giusto”? 
Come già anticipato non possiamo parlare di un vero e proprio comando, sarebbe invece più corretto parlare di atto comportamentale come lo definisce Pëtr Kuz'mič Anochin, 
che provo a schematizzare in questo modo.

Ancora prima dell'azione visibile si innescano alcuni processi che ne costituiscono la base, come ad esempio una analisi di tutte le informazioni di partenza che ci offrono una panoramica sulla situazione attuale del nostro corpo "sintesi afferente", e solo dopo predisporremo una previsione dello svolgimento e del risultato dell'azione "accettore d'azione" ed in parallelo il programma motorio. Preparare un piano dell'azione ci permette di confrontarlo costantemente con i risultati dell'azione in modo da poter riprogrammare il movimento qualora il risultato non coincida con la previsione. 

 Quello che noi vediamo in seguito ad un ictus chiaramente è il deficit motorio o linguistico, ma quello che non vediamo, è la ripercussione cognitiva, ed è a causa della sua invisibilità che in molti casi è lo stesso fisioterapista a non considerarla. 
Che un ictus danneggi il cervello credo ci trovi tutti d’accordo, e che il cervello sia un organo chiave per l’espressione delle funzioni cognitive immagino anche goda della stessa condivisione… o per lo meno me lo auguro. 
Ne è poi conseguentemente e facilmente intuibile allora come una lesione cerebrale abbia delle necessarie ripercussioni sulle facoltà cognitive. A questo punto già conosco il salto sulla sedia del diretto interessato paziente o del familiare, che sentendo parlare di alterazioni cognitive smette di riconoscersi in questo scritto, sapendo che la memoria è rimasta intatta, “ io non ho problemi cognitivi, ricordo tutti i pin delle carte e le password” , “non mi sento diverso di testa rispetto a prima e sono anche tornato a lavoro”. 
Questo lo so bene, ormai per la vita che faccio la maggiorparte dei miei amici sono diventati proprio i miei pazienti e figuriamoci se pensassi che non ci stanno al 100% con la testa. 
Quando parlo di alterazioni cognitive parlo di aspetti più sottili e più difficili da individuare, sono quelle abilità che ci permettono di muovere il nostro corpo ed interagire con l’ambiente. 

La memoria non è solo la memoria dei pin, o delle date di ricorrenze, anniversari od orari in cui prendere la medicina; c’è anche una memoria legata alle sensazioni del corpo, quella che ci permette di apprendere nuovi movimenti e nuove performance ed è proprio quella che dovremmo valutare in seguito ad un ictus. 

Anche nel caso dell’attenzione, che è uno dei processi cognitivi di cui sempre parliamo, questa non è sempre sovrapponibile alla concentrazione o alla lucidità, ha delle sfumature che ci permettono di poterla dividere su più parti del nostro corpo contemporaneamente, di saperla spostare agilmente da un aspetto del nostro corpo ad un altro e soprattutto di saperla dirigere alla parte del corpo o all’informazione più rilevante durante una certa azione. 

Quello che nello schema del comportamento di Anochin veniva chiamato “accettore d’azione” oggi viene solo in parte identificato dalla comunità scientifica come Immagine motoria, ovvero l’abilità di saper costruire una previsione del movimento, che contenga le caratteristiche spaziali e percettive del movimento stesso in modo da aiutarci a trovarci sempre preparati durante il movimento. 

La percezione stessa in seguito ad un ictus può essere alterata anche se non sempre se ne ha una coscienza totale del fenomeno. Quando visito un paziente per la prima volta chiedo sempre : 
E la sensibilità come va?” spesso le risposte sono: 
 “Va bene, va bene, quando mi tocco sento” oppure 
 “Mi hanno fatto le prove della sensibilità e sento” a quel punto procedo con un paio di test semplici e rispondo: 
 “Allora se ti chiedessi di chiudere gli occhi e poi ti muovessi un dito della mano, tu sapresti dirmi quale è ?” 

Molte volte accade che ci siano errori nella risposta del dito durante l’esecuzione o quanto meno un tempo di risposta superiore alla media. La percezione del corpo è qualcosa di più profondo rispetto a quello che possiamo valutare con le prove classiche della sensibilità che vengono fatte pungendo il paziente con un oggetto appuntito o chiedendo se sente quando gli passiamo sulla pelle una spazzola. Un altra prova che può aiutarci a far emergere alcuni disturbi di percezione è quella del movimento a specchio, ovvero sempre ad occhi chiusi guidiamo il braccio plegico del paziente in una posizione muovendogli contemporaneamente la spalla, il gomito ed il polso e chiedendogli di fare l’esatta copia con l’arto sano; in questa circostanza possiamo vedere gli errori di valutazione della direzione e dell’ampiezza dei movimenti. 

Ricapitolando
Se quello che noi identifichiamo come comando motorio è in realtà un atto complesso dove partecipano tutte queste funzioni cognitive, e se queste abilità cognitive in diversa misura hanno subito delle alterazioni, allora ne consegue che lo stesso comando motorio non può essere paragonabile a quello che potevamo generare prima della lesione. 

Nonostante quanto detto possa sembrare ragionevole però c’è un fatto che ci porta ancora a dubitare che il comando non sia alterato, infatti in seguito ad un ictus con tutta probabilità abbiamo una difficoltà motoria (emiplegia) di un solo lato del corpo, mentre il lato opposto quello sano lo muoviamo perfettamente, anzi possiamo dire che in alcune circostanze diventiamo anche più abili visto che siamo costretti ad utilizzarlo il doppio a causa dell’inabilità dell'altro. 

A tal proposito c’è un video che vorrei tu vedessi, in modo da mettere per lo meno in discussione questo fatto che il comando è buono visto che ancora riesce ad essere efficace per la gestione del lato sano. È un video fatto per valutare il problema dell’aprassia di una mia paziente emiplegica destra e che uso anche il primo giorno di lezione ai ragazzi del secondo anno di fisioterapia per introdurre il concetto di processi cognitivi e movimento. 


A questa mia paziente, se le dai un piatto di minestra ed un cucchiaio mangia da sola, si versa l’acqua e la beve con la mano sinistra, ma come hai visto nel video se deve svolgere delle attività nuove e specifiche come quelle che proponevo nel test andava in confusione. A questo punto, l’obiezione potrebbe ridursi allora ai soli casi di emiplegia sinistra dove non ci sono evidenti disturbi aprassia e del linguaggio. In effetti in questo caso l’alterazione della gestione motoria del lato “sano” è ancora più difficile da intercettare. 

Quando con i miei pazienti cerco di rimodellare questo comportamento derivato dall’idea che il cervello impartisca comandi e che il corpo esegua, faccio questa piccola prova anche solo per insinuare un ragionevole dubbio, lo aiuto a sedersi sul tavolo in modo che le gambe possano ciondolare per gravità visto che i piedi non toccano il suolo, allora sollevo il piede sano estendendo il ginocchio, gli chiedo di rilassarsi completamente e che da un momento all’altro lascerò il piede oscillare indietro e che questa oscillazione non deve incontrare alcuna resistenza o aiuto da parte sua, deve oscillare come un pendolo e fermarsi per inerzia da solo. Il risultato è sempre che il paziente non riesce giocare con la gravità e lasciarsi completamente andare: o interrompe l’oscillazione o la conduce. 
Anche questa attività ha bisogno di un comando motorio, certo apparentemente insolito perché richiediamo di privare della forza un arto e non di caricarla, ma si tratta pur sempre di un atto motorio intenzionale. Consideriamo quello che succede nel cammino, il nostro è un vero e proprio giocare con le leggi della gravità, imprimendo movimento e lasciando opportunamente il nostro corpo abbandonarsi all’oscillazione offerta da inerzia e gravità, mi riferisco in modo più ovvio ed evidente all’oscillazione delle gambe e delle braccia. 

Pensate al contrario se il nostro cammino vedesse che ogni parte del nostro corpo invece di sfruttare inerzia e gravità fosse costantemente condotta e spinta, perderemmo tutta l’economia di questa meravigliosa funzione, e la stancabilità e la disarmonia nel passo sono proprio aspetti lamentati dal paziente emiplegico e ragionando insieme possiamo attribuirle non solo alle difficoltà motorie del lato plegico. 

Per concludere se il nostro comando motorio ha subito delle alterazioni anche nella gestione del lato sano, possiamo immaginare come lo stesso comando su un lato del corpo dove invece sono cambiate le regole possa non sortire l’effetto desiderato. 

Il pericolo della metafora mente-comandante e corpo-sottoposto 
Devo dire che il compito precedente di far nascere il ragionevole dubbio che il comando motorio che impartiamo dopo un ictus non sia proprio giusto come pensiamo, è molto più semplice di questo che affronterò nel seguente paragrafo. 

Stiamo parlando infatti di un concetto, quello della distinzione tra mente e corpo e le loro differenti posizioni in una scala gerarchica, che non è solo radicato, ma a tutti gli effetti “incorpato” per utilizzare un termine caro agli studiosi che si occupano del tema della metafora. 
Il rapporto tra mente e corpo ha attratto pensatori di tutto il mondo e di tutte le epoche, pensiamo a Cartesio con la sua “Res cogitans” e “Res Extensa”, riferendosi “all’entità pensante” e “all’entità materiale” del corpo, individuando quindi tra le due una separazione. 
C’è un libro di Antonio Damasio intitolato “L’errore di Cartesio” dove viene affrontato questo tema e l’evoluzione dell’interpretazione di questa che in realtà sembra essere una unità inscindibile dove uno dei due elementi non può esistere senza l’altro. 
Visto che ho citato questo libro non posso però tacere su una piccola ingiustizia nei confronti di Cartesio, infatti nonostante il testo di Damasio sia molto interessante, di lettura gradevole e scorrevole e ne consigli la lettura, non posso fare a meno di sottolineare che se oggi possiamo parlare di unità integrata è proprio anche grazie a lui che ha avuto questo salto intuitivo ed ha permesso di comprendere meglio il rapporto tra corpo e cervello, per non dimenticarsi poi che in quel periodo storico essere un pensatore era la missione più pericolosa al mondo e potevi essere additato come eretico ed essere messo al rogo per molto meno.

Prima di approfondire il motivo del limite di interpretare il nostro essere come un insieme parti che abbiano un diverso ruolo gerarchico vorrei mettere sotto i riflettori della coscienza anche altre metafore concettuali su cui poggiamo la nostra comprensione del corpo e mi sto riferendo a cervello-centralina e corpo-macchina ed anche alla più sofisticata mente-software e corpo-hardware ( ahimè spesso siamo noi stessi addetti ai lavori che proponiamo queste metafore per spiegarci e non ci rendiamo conto di trincerare ancor di più i nostri pazienti dentro queste cornici sfavorevoli).

Come possiamo intuire queste metafore condividono gran parte di uno stesso panorama che vede nel cervello e nella mente la parte nobile al di sopra del corpo mero esecutore al servizio del cervello padrone e soggetto ai severi rimproveri nel momento in cui si sottrae alle sue funzioni esecutive 
“è questa stro..nza che non vuole muoversi”
Addirittura ci riferiamo al corpo in terza persona come se fosse al di fuori di noi, ma questo credo sia normale in quanto tendiamo a comprendere le relazioni tra le cose nel modo in cui comprendiamo le relazioni tra le persone. 

Proviamo allora per un attimo ad assecondare questa tendenza ad antropomorfizzare le regole del nostro essere e capire cosa succederebbe davvero se un cervello capo si trovasse nella condizione di ordinare qualcosa al suo sottogrado corpo e che quest’ultimo non ascolti e non porti a termine tali ordini. 
Qualsiasi superiore nel nostro immaginario non farà altro che ripetere l’ordine, ma stavolta con più veemenza fino a gridare e punire il suo insubordinato stile sergente Hartman di “Nato per uccidere” e portato su cellulosa da Stanley Kubrick con “Full metal jacket”. 

Rivedo con piacere insieme a voi una pillola di questo film, in modo da vedere come rischia di essere per il nostro corpo il rapporto gerarchico mente-corpo. Senza fare spoiler per chi non ha visto il film potete immaginare che un rapporto di questo tipo non porti ad una collaborazione fruttuosa… 



Riportiamo questa relazione sovrano-suddito al caso di emiplegia, dove con tutta probabilità il nostro arto plegico presenta ipertono ed irradiazione, il comando proveniente dai piani alti e identificato in impulso motorio, nel caso non venisse ascoltato dalla sala macchina, verrà semplicemente amplificato in termini di intensità e di sforzo, non facendo altro che irrigidire di più l’arto e riducendo ulteriormente le sue capacità di rispondere efficacemente ad ulteriori comandi. L’esito finale ovviamente è il conflitto e l’esclusione fino a volte ad un vero e proprio lutto del corpo. 

Ci sono pazienti che spesso volendo imparare come generare un comando motorio mi chiedono: “che muscolo devo usare per fare questo?”, io cerco di svicolare dalla domanda ironizzando sul fatto che quel giorno che spiegavano i muscoli all’università ero a casa malato. 
Ragionandoci in salute non avremmo mai fatto un pensiero come questo rivolto ad un muscolo per fare un movimento, ci muoviamo e basta ed il corpo lo sentiamo solo se ci fa male, figuriamoci se guardare il muscolo con gli occhi sgranati con l’intento di muoverlo come se avessimo poteri telecinetici possa portare a qualcosa di buono. 
Kubrick è il mio secondo regista preferito subito immediatamente dopo a Quentin Tarantino che userò per far vedere cosa pensiamo possa funzionare per ritrovare il movimento, ma che in realtà purtroppo non ha minimamente gli stessi risultati che potete vedere nella splendida Uma Thurman che veste i panni di Black Mamba in “Kill Bill vol 1” che appena uscita dal coma prova a riconquistare il controllo del suo corpo. 




Tornando alla richiesta insidiosa di quale muscolo ci permetta di fare un determinato movimento dobbiamo considerare che il muscolo come lo conosciamo noi potrebbe non essere lo stesso muscolo che conosce la natura.
Sappiamo infatti che ogni terminazione nervosa abbraccia un certo numero di fibre del muscolo, possono essere una decina come nel caso del muscolo e centinaia come nel caso degli arti inferiori. Questo gruppo di fibre muscolari che rispondono allo stesso terminale nervoso sono dette unità motorie e rappresentano l'unità minima del muscolo, una sorta di muscolo nel muscolo. Le unità motorie sono ulteriormente organizzate in compartimenti motori, ovvero regioni distinte del muscolo in grado di attivarsi con tempistiche e modalità diverse. In questo studio del 2015 ad esempio si evidenzia come il muscolo massetere che ci permette di muovere la mandibola veda attivarsi i suoi compartimenti muscolari in modalità diverse se il compito è mordere, masticare o ingoiare. Già nel 1999 i ricercatori English, Carrasco e Lawrence studiarono i compartimenti neuromuscolari del polpaccio del gatto ed il loro diverso comportamento a seconda se impegnati in un salto o nell'andatura.



Riportando questi ragionamenti al nostro caso specifico, quello che noi vediamo come una flessione di gomito, non vede attivarsi lo stesso muscolo e nel medesimo modo se con questa flessione del gomito avviciniamo il bicchiere alla bocca per bere o portiamo le dita alla fronte per grattarcela. Allora pensare al gomito intensamente per chiedergli di flettersi potrebbe non essere uno di quei comandi definibili "giusti". 

Credo che a questo punto allora vorrai sapere quale è il comando giusto, cosa bisogna fare per recuperare la possibilità di muoversi e di avere un rapporto con con noi stessi e con il movimento più favorevole. Ovviamente non posso prendere un paziente e dirgli : 

Guarda, al momento sei vincolato a metafore concettuali nei confronti del tuo corpo che non sono favorevoli al recupero”, perché rischierei che mi facciano ricoverare in reparto psichiatrico. Quello che faccio generalmente con i miei pazienti nei primi mesi, e fargli prendere confidenza con il proprio corpo insegnandogli a sentirsi, a percepirsi e a costruire le informazioni con l’ambiente, intendo dire che propongo degli esercizi semplici di percezione che coinvolgano tutto il corpo contestualizzandoli nelle azioni quotidiane entro cui il paziente è immerso. Faccio qualche esempio pratico nel cammino, che come sappiamo in molti casi vede il paziente emiplegico giungere al suolo con la punta del piede o con la parte laterale e più raramente con il tallone. In questo caso uno dei possibili esercizi per migliorare questa fase del passo è riconoscere e discriminare alcune consistenze con il tallone.




Soffermiamoci per un attimo sul fatto che il tallone è la prima parte del nostro piede che entra a contatto con il suolo, e come tale è quella parte che ci aiuta a costruire molte informazioni sulle caratteristiche del suolo, sia dal punto di vista della sua consistenza sia della sua inclinazione, solo ragionando in termini logici la natura avrà con tutta probabilità predisposto il tallone e le aree del cervello impegnate all’analisi delle informazioni costruite con esso, in modo che possano costruire con il suolo tutte le informazioni necessarie per poter svolgere la funzione del cammino, altrimenti forse non sarebbe stato proprio il primo a raggiungere il suolo. 

Il ruolo della riabilitazione è quello di facilitare questa costruzione di informazioni ed aiutare il paziente a riappropriarsi di queste informazioni, perché sarà attraverso queste ultime che sarà in grado di costruire il movimento. 
Ricordate quello schemino visto prima di Anochin, il nostro programma di movimento viene elaborato sulla base delle informazioni che costruiamo con l’ambiente, e le stesse informazioni le possiamo costruire ed elaborare solo attraverso il movimento. 
È una danza continua che sembra voler dire: mi muovo per sentire per muovermi per sentire per…. e così all’infinito. 


Prima di andare avanti verso la conclusione visto che abbiamo parlato di cammino, di informazioni, di piede e di suolo, vi faccio vedere questo oggetto che conoscerete benissimo e vi chiedo di riflettere sul suo ruolo in questo processo di percezione e di movimento. Una suola rigida e spessa che chiaramente ha il compito di evitare cadute, ma che si intromette con prepotenza nel dialogo piede-suolo. In un altro articolo parlo nello specifico della molla di Codeville, pertanto mi limito solo a questa provocazione.

Ovviamente nei primi mesi in cui con i pazienti lavoriamo con questi esercizi un po tecnici di percezione, invito sempre il paziente a scoprire e a comprendere le nuove sensazioni provenienti dalla nuova condizione. Infatti, solo chi vive da dentro una emiplegia conosce cosa si prova e sono sensazioni diverse che non ha mai provato prima e su cui deve imparare ad orientarsi per poter ottenere ad esempio il controllo sull’ipertono o sull’irradiazione. 

Purtroppo come è vero che solo chi vive un emiplegia può sapere cosa si prova ad avere un lato del corpo spastico, è anche vero che nessuno paziente emiplegico può provare la stessa sensazione di un altro proprio perché vive una esperienza unica mediata da modalità di viverla unica. 
Pertanto se anche avessimo smascherato le metafore concettuali con le quali fino ad oggi abbiamo regolato il nostro comportamento e se anche avessimo a disposizione le alternative più favorevoli, lontane dagli esempi di Kubrick e Tarantino, e forse più vicine a quelle trapelate nelle righe precedenti di movimento come dialogo continuo tra noi e l’ambiente, di danza e coreografia tra il nostro corpo e lo spazio intorno a noi, avremo sempre bisogno di incorpare questi nuovi concetti ed idee attraverso esperienze dirette, quelli che definiamo esercizi. 
Quando parliamo di Metodo Perfetti cerchiamo di non vedere solo la superficie fatta di esercizi tecnici di percezione, che già però se fatti con costanza e tempismo sarebbero sufficienti ad evitare molti problemi di spasticità e metterci su una strada migliore per il recupero, ma cerchiamo di vedere anche tutto il lavoro di mediazione che opera il terapeuta per aiutare il paziente a comprendersi e gestirsi.

1 commenti:

Ho e sto combattendo tutt'ora dopo 14 anni con gli esiti di un ictus emorragico. Apprezzo molto questi articoli esplicativi che evidenziano in modo "onesto" quanto sia complicato riacquistare abilità perdute in pochi istanti. Oggi deambulo con ausilio di bastone ma in ambiente protetto (in casa) anche senza. In tutti questi anni ho fatto molta riabilitazione che purtroppo il piu' delle volte mirata al rinforzo muscolare. Eseguiti interventi di allungamento tendini braccio e gamba sx. Portatore di pompa al Baclofen. Fisioterapia Neurocognitiva solo i primi tre mesi dopodiché come detto terapia classica. Spero di trovare nei Suoi articoli spunti che mi aiutino a "risolvere" più che altro sensibilità e movimenti arto superiore ancora bloccato. Grazie Dottore dell'aiuto

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